Dalle ceneri di un onesto e modesto cinebiografo specializzato in
musicisti (e uscito dal circolo di Ken Russell) è nato un regista. Tony
Palmer, noto da noi per una vita televisiva di Wagner dai puri meriti
illustrativi ma precedentemente autore molto premiato di documentari e
di film tv sulla musica popolare e su Stravinskij, su Benjamin Britten e
su Handel, a testimonianza di una regolare e approfondita
frequentazione con il pentagramma ha firmato con Testimony un film lungo
(157 minuti), importante e singolare. Ispirato a Testimony: The Memoirs
of Dmitri Shostakovich (il libro, curato da Solomon Volkov è stato
pubblicato in Italia otto anni fa da Mondadori sotto il titolo Memorie, e
con un po' di fortuna se ne può trovare ancora qualche copia), scritto
da David Rutkin, interpretato da quello straordinario e un po'
inquietante mimo delle altrui esistenze che è Ben Kingsley, Testimony
mette in scena la vita e i tempi del cittadino artista Dmitri
Shostakovich. Shostakovich,
russo pietroburghese, debuttante precoce e geniale a diciannove anni fu
autore della Sinfonia n. 7 Leningrafo composta per esaltare la
resistenza sovietica ai nazisti e della Sinfonia n. 13, sul testo del
poema di Evtushenko, ispirata alla terribile strage di Baby Yar e intesa
a stigmatizzare l' antisemitismo sovietico di opere come Il naso (da
Gogol) e come Katerina Izmailova (una sua interpretazione di Lady
Macbeth), ma anche di ballabili corrivi e di colonne musicali per film
di regime. Fece musica sperimentale, avanzata e innovativa, ma fu anche
pronto a far marcia indietro, dopo il rapporto Zdanov del 1948, verso
forme più monumentali e tradizionali. Insomma, rifletté nella sua musica
quello che fu un rapporto tragico e ambiguo con il potere sovietico e
un rapporto personale, di fascinazione e di paura, con Stalin. Un
rapporto fatto di ribellione intellettuale che si mescolava ad uguali
dosi di terrore a costruire una vita contraddittoriamente divisa tra la
capacità di vedere lucidamente e la necessità di piegare la testa. In
Testimony il libro che dettò a Solomon Volkov, che autenticò pagina per
pagina, che venne spedito in Occidente perché fosse pubblicato dopo la
sua morte, e che infatti, quando Shostakovich morì, nel 1975, la Feber
and Feber si affrettò a stampare non risparmia gli strali e il vetriolo
dei suoi ricordi e dei suoi giudizi, ma allo stesso tempo rivela la sua
debolezza psicologica, così connaturata al personaggio da impedirgli di
rinnegare o liquidare totalmente dentro si sé i legami con lo stalinismo
anche dopo il rapporto Krushov. Ben Kingsley offre a Shostakovich, per
una volta, un' interpretazione estraniata, che vive senza ricorrere al
suo classico mimetismo. Anche perché, per raccontare la storia dei dubbi
e del tradimento messo in atto ai danni di amici e colleghi da
Shostakovich (quando un furibondo Zdanov aggredisce pubblicamente la sua
musica è pronto a dargli ragione, quando Stalin gli chiede di recarsi
con una delegazione sovietica a New York prima si rifiuta poi attacca
duramente e freddamente i musicisti emigrati), Tony Palmer ha scelto la
strada di un bellissimo bianco e nero espressionista appena acceso qua e
là da un tocco di colore, una colata di sangue o la sfumatura di un
cielo, e una narrazione frammentata e antinaturalistica. Mescola alla
storia pubblica di Shostakovich documentari d' epoca e le grandi
immagini della propaganda di Ottobre. La incornicia nell' ironica
cronaca in diretta che Shostakovic fa dei propri funerali (cui fanno da
contrappunto i terribili e reali funerali di Stalin). La intreccia con
naturalezza e sottigliezza psicologica al difficile rapporto tra un uomo
che accetta di piegarsi e la propria famiglia. La contrappunta con il
naturale, permanente terrore di un artista che vede i propri amici da
Meyerhold al generale Tukhachovsky portati via senza preavviso e motivo
nel cuore della notte, e che si prepara spiritualmente ad andarsene da
un momento all' altro, con un po' di carta per scrivere, una penna e uno
spazzolino da denti. Non facile né difficile, solo complesso e
inconsueto, Testimony è un bel film che va affrontato con un minimo di
istruzioni per l' uso. Ma soprattutto con la voglia di ripercorrere,
attraverso Shostakovich, il grande dramma del rapporto con il potere
nelle sue forme più feroci, come lo hanno attraversato tanti artisti e
tanti uomini comuni del nostro tempo. Solo una rievocazione? Andiamoci
piano. Lo schema, ingentilito e rimpicciolito, continua a ripetersi.
Senza bisogno di pensare al caso Rushdie.
Irene Bignardi