Regime totalitario, regime autoritario o regime di guitti in cui un
Grande Guitto manipola a proprio vantaggio arcaiche disponibililà al
servilismo e alla clientela? Harvey Sachs, che aveva indagato la
personalità musicale che si pose in massimo conflitto con il fascismo
nella sua nota biografia di Arturo Toscanini, in Musica e regime
traccia, con studio attento e abile montaggio dei documenti, un panorama
del rapido e facile - e in molti casi benaccetto - asservimento dei
musicisti, delle istituzioni e infine di tutto il mondo musicale
italiano agli obiettivi di propaganda e manipolazione del fascismo, fino
alle leggi razziali e alla guerra. Ne esce una tragedia meschina con
spunti di incredibile farsa: l'espressione Hannah Arendt, «la banalità
del male», è forse eccessiva per i personaggi e le maschere che vi
compaiono; la loro - osserva Sachs - fu «la banalità dell'opportunismo,
terreno su il male cresce».
Harvey Sachs è nato nel 1940 a
Cleveland, Ohio, ma è cittadino canadese. Vive in Italia. Ha collaborato
al «New Yorker», «New York Times», «Nouvel Observateur», «Times
Literary Supplement», «Corriere della Sera», «La Stampa».
Tra le sue opere: Toscanini (1981), Virtuoso (1982), Reflections on Toscanini (1991), Rubinstein (1995).
DALLA PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ORIGINALE INGLESE
[...]
Nel 1980, cominciai a raccogliere il materiale per questo progetto. Non
ero però la sola persona che stesse lavorando sul campo. Nel 1984,
Fiamma Nicolodi, dell'università di Firenze, pubblicava una monografia
di alto valore informativo sullo stesso argomento. La professoressa
Nicolodi è una specialista della musica italiana del Novecento, e una
parte considerevole del suo libro è dedicata alle tendenze compositive
in Italia precedenti il periodo fascista. In ciò, e per molti altri
aspetti strutturali, i nostri due studi hanno poco in comune. Tuttavia,
la sua lucida e ben documentata esposizione di molti aspetti
dell'attività musicale durante il regime di Mussolini mi stimolò a
riconsiderare il materiale che avevo già raccolto. Pur con alcune
inevitabili coincidenze, la mia scelta del materiale di solito
differisce da quella di lei. I nostri punti di vista, poi, presentano
notevoli differenze, persino in casi in cui si giunga entrambi a
conclusioni simili. Ho però un debito di gratitudine verso il libro di
Fiamma Nicolodi e per ogni altro aiuto che lei ha voluto generosamente
concedermi.
Scopo di questo libro è esaminare e interpretare
documenti, non accusare o sedere in giudizio. Ma ogni autore ha, o
dovrebbe avere, un punto di vista sull'argomento di cui scrive, e per
quanto si cerchi di essere equanimi nel trattare il materiale, l'atto
stesso della selezione, per non dire le decisioni sul modo in cui
trattarlo, comporta inevitabilmente un certo grado di tendenziosità e
manipolazione. Una volta raccolto il grosso dei «fatti» - e dopo averli
organizzati e trascelti e vagliati - ne ho visto emergere una mia
visione d'insieme. Per bilanciare tale visione, o forse per verificarla,
mi sono preoccupato di parlare con alcuni musicisti che erano già
attivi durante il periodo fascista. Ciò che mi interessava in primo
luogo non era ulteriore informazione, ma il modo in cui essi ora
concepivano gli eventi di cinquant'anni fa, soprattutto quanto
all'influenza del regime sulla musica. Il mio intento in origine non era
quello di pubblicare tali interviste così com'erano, ma soltanto di
incorporare nel libro ogni utile impressione o idea che da esse si
poteva trarre.
Ma Massimo Mila, Goffredo Petrassi e Gianandrea
Gavazzeni sono uomini intelligenti con forti personalità. Ciò che
ciascuno di essi aveva da dire appariva degno di essere ripetuto per
intero, a controllo delle affermazioni di un autore che è nato dopo la
il guerra mondiale e che è cresciuto lontano dall'ambiente culturale
italiano. Ho quindi deciso di trascrivere i nastri delle nostre
conversazioni, piuttosto che usarli per trarne delle semplici note; le
trascrizioni sono state sottoposte a ciascuno dei tre e tutti hanno
acconsentito alla pubblicazione delle interviste, senza mutamenti
sostanziali.
Gli intervistati - un autore che scrive di musica, un
compositore e un direttore d'orchestra - erano in grado di parlare di
aspetti diversi della vita musicale. Ciascuno di essi si era venuto a
trovare in posizione diversa rispetto al regime: Mila - il più giovane -
era stato un antifascista militante che aveva pagato un alto prezzo per
le sue convinzioni; Petrassi era stato attivo, sia pure in modo
limitato, nella burocrazia musicale; e Gavazzeni, per tradizione
familiare e formazione culturale, si era opposto al fascismo, pur
seguendone le forme esteriori, ma «senza assumere atteggiamenti eroici»,
come dice egli stesso. Una conclusione minore circa la natura della
vita musicale durante il fascismo la si può trarre dal fatto che tutti e
tre erano buoni amici all'epoca, malgrado le loro differenze politiche,
e lo sono rimasti da allora.
Questa non è né una storia dell'Italia
fascista né una storia della musica italiana durante il secondo quarto
del xx secolo. Coloro che cerchino ulteriori informazioni circa,
diciamo, la musica futurista, o vita e opere di particolari compositori
italiani sono pregati di fare riferimento al libro di Fiamma Nicolodi e
alle eccellenti bibliografie che accompagnano le ottime voci di J. C. G.
Waterhouse sui musicisti italiani del Novecento in The New Grove.
Questo è uno studio dei mutamenti che subirono certe istituzioni
musicali e di come vissero e agirono certi musicisti durante i vent'anni
e poco più di dominio fascista. (H. S. 1986)
PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA
Sono
passati otto anni da quando ho completato la stesura dell'edizione
originale angloamericana di questo libro, e nel frattempo ho potuto
correggere qualche errore di cui mi ero reso conto o da solo o grazie
alle notizie fornitemi nelle gentili recensioni di alcuni critici -
primo fra tutti John C. G. Waterhouse («The Musical Times», Gran
Bretagna, giugno 1988), ma anche il molto compianto Massimo Mila («La
Stampa», Torino, 20 dicembre 1987), Samuel Lipman («The New Criterion»,
Stati Uniti, ottobre 1988), Peter Gradenwitz («Das Orchester», Germania,
aprile 1989) e Richard D. Burbank («Notes», Stati Uniti, giugno 1989).
Nella
prefazione all'edizione italiana (1981) della mia biografia di Arturo
Toscanini, spiegavo ai lettori che per mantenere l'integrità del testo
avevo lasciato in situ i brevi cenni di raccordo sulla storia d'Italia,
inclusi a uso dei lettori anglofoni nell'edizione originale. Intendevo
inserire una simile spiegazione nella prefazione all'edizione italiana
di questo mio Musica e regime, e certamente, prima del 27 marzo 1994, mi
sarei detto, «Chissà come si annoieranno i lettori italiani a ripassare
per l'ennesima volta questa storia!».
Adesso invece, mi viene da
pensare che forse questa storia non è poi tanto ben conosciuta, o che
l'hanno dimenticata: la storia di come, tra il 1919 e il 1922, per
riempire un vuoto politico e per risolvere una profonda crisi
socioeconomica, gran parte della classe dirigente (il re, in primo
luogo), della borghesia e persino della classe operaia si lasciò
prendere dalla voglia di ordine pubblico a qualsiasi prezzo; la storia
di come, tra il 1922 e il 1925, gli stessi videro, e non sempre con
dispiacere, l'indebolimento di tutti i partiti d'opposizione e la messa
in azione dei principi antidemocratici e antipluralistici del fascismo,
soprattutto tramite i mezzi d'informazione, che Mussolini aveva prima
imparato a usare con grande maestria e che poi imbavagliò; la storia di
come, negli anni successivi, il regime via via ingoiò ogni settore della
vita nazionale, esigendo da tutti ubbidienza, almeno nelle forme. E poi
le storie del mare nostrum, della conquista dell'Etiopia, della crudele
alleanza con Franco e di quella disastrosa con Hitler, delle leggi
razziali, delle aggressioni italiane in Francia e nei Balcani, delle
bombe degli alleati, e della guerra civile.
Poco prima delle
elezioni del 27 marzo sentii con le mie orecchie discorsi che mi colsero
di sorpresa: «Il vecchio sistema è marcio» (piuttosto che gestito da
persone marce) «e quindi dobbiamo servirci di gentaglia e imbecilli come
quelli dei partiti X, Y e Z per poter poi disfarcene quando le cose
saranno state rimesse sul binario giusto».
Ebbi un attacco di déjà
vu. Non avevano parlato così anche molti tra i sostenitori di Mussolini,
fino al 1925, all'incirca, e di Hitler, fino all'autunno del 1933 -
cioè fino a quando non fu più concesso loro di parlare, se non per dire
sì? Purtroppo la sensazione si ripeté anche dopo le elezioni e
precisamente in agosto, quando, proprio nel cinquantesimo anniversario
della liberazione di Firenze, il ministro Mastella, cercando di
mascherare l'inettitudine del governo in materia d'economia, si riferì
alla misteriosa e malefica «lobby ebraica» di Wall Strect, così come i
fascisti solevano dare la colpa dei guasti da loro provocati nello
stesso campo a un sinistro complotto «demo-pluto-giudo-massonico».
E
poi ci fu dell'altro: l'autopubblicità televisiva del governo, pagata
dal contribuente; l'uso di giornalisti e di altri commentatori reputati
liberi e spregiudicati, per enunciare la politica ufficiale e ufficiosa;
le accuse alle opposizioni di voler «remare contro», cioè di non avere a
cuore gli interessi della nazione soltanto perché facevano il loro
mestiere di opposizione; i primi segni di adeguamento, da parte delle
opposizioni, al clima del momento (il sindaco di Roma che dà il
benvenuto ai Savoia venuti in visita al Campidoglio e che li saluta come
«altezze reali», oppure l'«Unità» che offre come supplemento il Vangelo
presentato dal cardinale Martini, pur di dimostrare che si tratta di
un'opposizione che non vuole offendere nessuno); le dichiarazioni del
ministro Fisichella, il quale, comodamente dimenticandosi del Tribunale
speciale fascista - che aveva il dovere di eliminare dalla vita della
nazione ogni traccia di opposizione al partito - dichiara che la
magistratura durante il ventennio non era sotto il controllo del regime;
i ripugnanti insulti antiomosessuali durante il vergognoso tafferuglio
di ottobre alla Camera, il francobollo commemorativo dedicato a Giovanni
Gentile; e la critica mossa dal governo ai mezzi d'informazione per
aver dato «troppo risalto» alle massicce proteste di ottobre e novembre.
In
queste circostanze, il sottoscritto tiene a identificarsi come
extracomunitario demogiudeo non plutomassone, internazionalista non
marxista, quasi libertario; ha adorato l'Italia da quando ci mise piede
per la prima volta un quarto di secolo fa, e ci vive oramai da quasi
diciassette anni. Perciò, sarebbe contento, pur essendo un tipo che non
si è mai sentito in grado d'insegnare niente a nessuno, se la misera
storia (a volte buffonesca, a volte nauseante, a volte tragica) di
piccoli e grandi compromessi e di piccole e grandi idiozie raccontata
nelle pagine che seguono venisse letta non soltanto da chi sappia già
che cosa sia veramente successo in Italia tra il 1922 e il 1945, ma
magari anche da qualcuno che non lo sa. (H. S.
aprile 1995).
(Fonte: www.rodoni.ch/malipiero/sachamusicaregime.html)