Mozart secondo Marriner

"Idomeneo" & "La clemenza di Tito"
Genialità e tristezza in tensione di suono



Parigi, "rive droite", Place du Chatelet. Si direbbe proprio che il luogo abbia accolto i diversi capricci dei vari Napoleoni di Francia. La piazza prende il nome da una fortezza, il Grand Chatelet, che un tempo sorgeva a difesa del pont du Change e che l'ex generale Bonaparte fece demolire senza soverchie preoccupazioni, nel 1802. A Napoleone III restò il compito di sistemare questo spazio non lontano dal Louvre e dalle Halles. Fece quello che nell' Ottocento si poteva fare: una fontana e due teatri. Della fontana, quando si ricorda che ha delle brutte statue e che al centro ospita una colonna del 1808, dedicata alle vittorie del primo imperatore, si è ricordato praticamente tutto. Dei due teatri diremo che vennero costruiti nel 1862 e che uno di essi è un gioiello con tutti i sapori parigini del secondo Ottocento. E' quello che prende il nome dalla piazza: è il Thèatre du Chatelet. Entrando vi chiederete se quella sera c'è in qualche palco Bel-Ami di Maupassant, magari accanto a un'amica gradevole che lo consiglia sulla cronaca che dovrà vergare la notte stessa per il suo giornale. Bel-Ami non c'è, però in questo delizioso luogo è tornato Wolfgang Amadeus Mozart. Amava questa città . Ci venne bambino. Vii ncontrò il letterato tedesco Friedrich Melchior von Grimm, collaboratore dell'Encyclopèdie, grazie alle premure del quale la sua famigliola potè sedersi alla mensa di Luigi XV, a Versailles. Ci ritornò uomo, dopo i vent' anni, in compagnia della madre, che qui morì . Era il tempo della querelle Gluck-Piccinni: Parigi non era più la stessa, offriva fascino e non vantaggi. Papà Leopold in una lettera del 9 febbraio 1778 consiglia il suo Wolfy sull'atteggiamento da tenere. E' un compendio dei tempi: "Se ci fossero Gluck e Piccinni eviterai per quanto possibile di frequentarli... Con persone d'alto rango comportati con la più grande naturalezza. Ma con tutti gli altri fa l'inglese. Te ne prego, non essere tanto sincero". Il consiglio di Leopold assomiglia all'architettura della Place du Chatelet: gradevole ma non sincera. Forse per questo Mozart è ritornato qui. E qui lo abbiamo risentito. Per noi era un appuntamento d'obbligo: in codesto numero dedicato ai mondiali, occorreva il musicista che in questo momento sapesse rappresentare i gusti del mondo, quanti più gusti possibile, e nel contempo fosse tra quelli che si possono catalogare sotto la voce "sommi". Non abbiamo avuto dubbi. E poi tutto coincideva: un musicista austriaco evocato nella capitale francese dalla bacchetta di John EliotGardiner (che è inglese), in due opere - L'idomeneo e La Clemenza di Tito - che hanno avuto librettisti italiani. Più mondiale di così ci siamo detti, c'e' soltanto il Don Giovanni, che poteva ricordare le celebri amanti spagnole. Gardiner è un piacevole signore che attira gli sguardi delle signore. Ama eseguire con il metodo filologico: strumenti originali, organici fedeli all'epoca. Ha affrontato le due opere (aprono un progetto che sarà registrato per la Archiv e che il Thèatre du Chatelet dedica al Mozart lirico; si chiuderà nel 1995 con Il Flauto magico) nella versione in forma di concerto; tutte le successive saranno eseguite in versione scenica. Con sè aveva l' ottimo Monteverdi Choir e la buona orchestra degli English Baroque Soloists. I cantanti preferiamo invece non ricordarli. Indovini il lettore perchè. Intendiamoci: Gardiner ha saputo offrire due serate (noi abbiamo assistito il 27 maggio alla Clemenza e il 29 all'Idomeneo) degne di nota. Il pubblico parigino ha salutato il maestro inglese con applausi prolungati, di quel genere ormai raro. E codesto maestro inglese ha proposto un Mozart in cui l'orchestra si è sobbarcata l'onere del messaggio vero: suoni perfettamente curati, nessuna sbavatura, ricreazione acustica fascinosa. In un incontro del 28 maggio, abbiamo chiesto a Gardiner: "Che cosa ha modificato dell'orchestra rispetto a quella usata da Mozart?". La risposta non si è fatta attendere: "Niente, lo giuro". E quel "lo giuro" lo ha prolungato per qualche minuto, quasi tutto il tempo del nostro dialogo, tenendo il braccio destro alzato con pollice e mignolo uniti, mentre indice, medio e anulare erano sull'attenti, in un tipico atteggiamento inglese che da noi si vede soltanto durante i saluti dei "lupetti" dinanzi al lupo saggio, ovvero ad Akela, il loro capo nel regno degli scout. Molti si son posti la domanda: è più importante adeguare le voci all'orchestra o l'orchestra alle voci in queste due opere di Mozart? Per la mentalitò lirica non v'è dubbio: lo strumento si deve adeguare alle voci. Prima i frutti dell'ugula, poi gli altri. Gardiner è stato pensoso dopo questa domanda. La sua risposta, articolata e dotta, non staremo a riportarla. Ci basti far notare che ha sottolineato quanto sia indispensabile avere un'orchestra che sappia evocare senza tentennamenti la rete di note che accoglie il canto. Certo, dandoci Idomeneo e la Clemenza in forma di concerto, egli ha soprattutto restituito un suono; non ci ha aggiunto quel teatro per gli occhi che di solito accompagna questi lavori. A lato di tali osservazioni vorremmo porre qualche nostra considerazione. Innanzitutto: Idomeneo è un'opera che nacque con mille riflessioni, soltanto poche parti conobbero la stesura di getto. Il librettista, l'abate Giambattista Varesco, se ne stava alla corte del principe arcivescovo di Salisburgo e da lì non aveva nessuna intenzione di muoversi. Mozart comunicava le variazioni attraverso papà Leopold. Basta consultare l'epistolario mozartiano (non certamente la sgangherata traduzione italiana pubblicata e continuamente ristampata da Guanda, dove di queste lettere non v'è traccia) per accorgersi quanto fosse meticoloso il giovane compositore. Ecco la lettera dell'8 novembre 1780, dove Wolfgang chiede al genitore di intercedere presso Varesco per un cambiamento delle parole ydell'aria di Ilia nell'Atto II, scena II: ""Se il padre perdei, in te lo ritrovosto" produce un effetto sfavorevole. Anche se non fosse questo il caso, preferirei un'aria che scorresse senza interruzioni". Accanto a tali richieste va ricordato che non tutti i cantanti soddisfacevano Mozart. Lettera a papà Leopold del 15 novembre 1780 (anch'essa mancante dalla brutta raccolta di Guanda): "Dovro' insegnare al mio molto amato castrato dal Prato (che doveva essere Idamante, n.d.r.) l' intera opera, dato che egli non ha alcuna nozione di come si canti una cadenza in modo efficace, e la sua voce è così ineguale". In altri termini, Mozart componeva buona parte dell'opera, soprattutto le arie, dopo aver conosciuto i cantanti. E poi li voleva sentire, ne centellinava le capacitaà, costruiva i suoni adattandosi alla loro natura. Tanto, era così geniale che poteva permettersi quel che voleva. E' evidente che le nostre esecuzioni di quel mondo conservano soltanto un pallido ricordo. Siamo al meglio quando non cadiamo nel peggio. Però le prove di Gardiner, senza orpelli e fiocchi di scena, almeno in questo caso, hanno saputo restituirci più di quanto ci aspettassimo. I temuti tagli hanno aiutato la versione in forma di concerto, mantenendo la tensione. Sia chiaro, comunque, che il risultato dell'orchestra merita qualcosa di più che una semplice pacca sulla spalla al direttore. Già all'inizio, con l'ouverture in re maggiore, si avverte il fiuto di Gardiner. Pur avendo a disposizione un organico che non permetteva grandiosità, ha saputo accoppiare la maestosità del suono con il dramma. Il che non è poco in questa che è una delle ouverture piu' riuscite a Wolfgang, uno di quei brani che si fanno sentire in tutta l'opera, con passaggi magistrali. Ne ricordiamo uno: quando dal re maggiore si passa al secondo tema in la minore, attraverso una serie di suoni gentili che sono poi gli stessi che accompagnano le nostre orecchie sino alla fine. Gardiner ce li ha restituiti con una minuziosità eccellente. Piu' avanti ha forse lesinato con la grazia, per necessità, percheè tagliando alcune parti ci ha privato di qualche perla: i recitativi accompagnati dall'Idomeneo.Qualcuno si chiederà ora che cosa è successo la sera della Clemenza. Ma qui non possiamo essere chiacchieroni, data la tirannia dello spazio e la missione che ci ha spinto a Parigi: trovare suoni per incensare questa "pallonata" dei mondiali che a noi ha recato - lo scriviamo serenamente, senza problemi - più fastidi che gioie (e non sono ancora cominciati...). Il lettore sa che la Clemenza di Tito nacque da un Mozart che era in gara con la Morte. Scritta di getto, concepita tra mille ansie, resta per noi un'opera enigmatica, che più sentiamo più ci fa pensare. Gardiner ce l'ha offerta in una sera parigina. L'abbiamo sentita, la forma di concerto le ha tolto la tragica grandezza delle scene, che sono poi le ultime scene serie di Mozart. Ma non riusciamo ad andare oltre. Lo confessiamo: ci siamo messi a meditare durante il trio che figura sulla partitura quale n.10, il "Vengo, aspettate". Un trio amaro: Annio e Publio cantano insieme per tutto il brano e scambiano per gioia l'angoscia espressa da Vitellia, che si diffonde con il suo allegro, il quale però è un'aria di a solo. L'orchestra è chiamata a fornire un effetto drammatico con incalzanti figurazioni di violino, le stesse che accentuano il terrore e il rimorso di Vitellia. Certo, questo è Mozart. Ti pare allegro, ma alla fine ti accorgi che è triste. Diffonde gioia e nasconde qualcosa di indefinibile. Perchè ? E' difficile rispondere. Allo Chatelet ci siamo sentiti dei pellegrini che vanno a chiedere una grazia in un santuario. Anzichè un miracolo desideravamo ghermire meglio questo indefinibile
compositore, nei suoni, nell'insieme. Ci siamo accorti che occorre continuare. Approfittiamo di tutte queste celebrazioni per recarci il più possibile nei templi dove si evocherà l'anima di Wolfgang, per chiedergli ogni volta che cosa volesse descrivere con le sue note in quel mondo fugace che chiamiamo armonia. Parigi sembra fatta apposta per meditare. La cena si consuma dopo le note di Mozart alla Closerie des Lilas: un raffinato ristorante che sconfina in un giardino a Montparnasse. Qui ci venivano quei due pettegoli dei Goncourt, Guillame Apollinaire lo considerava il caffè dei pittori, Ernest Hemingway ci passava intere serate. Certo, tra quei tavoli si sente ancora qualcosa lasciato da Toulose Lautrec, da Pablo Picasso o da Amedeo Modigliani, ma di certo si aggira qui eternamente quanto Verlaine, uno dei frequentatori, scrisse in Clair de Lune: "Votre ame est un paysage choisi", "La vostra anima è un paesaggio squisito". Ma sì: l'avrà scritto qui, pensando a Mozart, come tutti coloro che si sono ritrovati con noi, a cena. Lo confessiamo: per un buon paio d' ore, alla Closerie des Lilas, non abbiamo pensato all'incubo che ci attendeva in Italia. Un incubo che ha la forma di una sfera. Molti lo chiamano "Mondiali".

di Armando Torno (Il Sole 24 Ore, 3/6/1990)