Il 30 luglio 2007 è morto a Farö il regista svedese Ingmar Bergman,
aveva 89 anni. Sul rapporto tra Bergman e la musica pubblichiamo un
articolo che Sergio Sablich scrisse per il "gdm" nel 1987, quando uscì
la traduzione italiana della sua biografia, Lanterna Magica.
Una
volta Ingmar Bergman mi disse che se fosse tornato a vivere avrebbe
voluto essere un musicista. Nel suo lavoro in teatro gli era parso
sovente di assolvere alla stessa funzione di un direttore d'orchestra e,
come autore di film, di concepire le sue sceneggiature secondo temi,
ritmi, timbri e persino forme musicali. Nella sua autobiografia, Lanterna
Magica, tradotta in italiano dalla Garzanti, Bergman fa riferimento
spesso alla musica: non solo per rievocare aneddoti ed esperienze
professionali della sua vita, ma anche per attribuire alla musica un
ruolo decisivo nella propria formazione umana e artistica. Lo stesso
volume, del resto, contiene lo schema di una forma musicale organica,
quasi classica. I primi capitoli, dedicati ai ricordi dell'infanzia,
fissano i temi principali, come nell'esposizione di una forma-sonata; lo
sviluppo centrale, ampio, travolgente, ricco di contrasti drammatici e
di sospensioni liriche, di digressioni e ciclici ritorni, converge alla
fine in una sorta di ripresa nella quale quei temi, attraverso il
colloquio col fantasma della madre e la lettura del suo diario,
acquistano tutt'intero il loro significato: rivelano cioè il senso di
un'esistenza, e la trasfigurano. Non si tratta però di un apparato
esterno. Guardando all'interno, ogni volta che Bergman ci parla di
musica lo fa per segnare tappe fondamentali di una presa di coscienza.
Sono illuminazioni, pensieri, momenti che restano, incidendo
profondamente la loro orma in una personalità inquieta e sfuggente. Si
direbbe anzi che in questo libro aspro, crudele, talvolta persino
brutale per accanimento e sincerità, dove l'attività cinematografica e
teatrale di un genio sembra aver lasciato soprattutto impressioni di
pena e di inadeguatezza, la musica sia l'unico punto di riferimento
luminoso: un conforto, un invito alla pace e alla concentrazione
creativa. Musica come gioia, musica come silenzio.
Bergman racconta
che fu un musicista che suonava dietro le quinte nel Sogno di Strindberg
a introdurlo per la prima volta nella magia del teatro. Aveva dodici
anni, e fu la rivelazione. Molti anni dopo, mentre cura lui stesso la
regia del Sogno al Dramaten, Bergman è turbato, angosciato. Il pensiero
va a Sebastian Bach: «Il maestro era tornato da un viaggio, durante la
sua assenza erano morti la moglie e due figli. Egli scrisse sul diario:
"buon Dio, fa' che non perda la mia gioia". Per tutta la mia vita
cosciente ho vissuto con quella che Bach chiamava la sua gioia. Mi ha
salvato durante crisi e periodi di infelicità, è stata efficace e fedele
come il mio cuore. A volte soggiogante e difficile da governare, mai
però ostile o distruttiva. Bach chiamava gioia questa condizione».
Nell'ultimo capitolo è la musica di Bach, quella dell'Oratorio di
Natale, ad avviare la trasfigurazione nel ricordo della madre, in un
corso di pensieri e sentimenti più disteso, decantato. La luce: «I
corali di Bach si muovono ancora come veli colorati nello spazio della
coscienza, avanti e indietro sulle soglie, attraverso porte aperte,
gioia».
Anche nel silenzio di Dio, durante notti insonni popolate di
dèmoni, la musica parla e conforta, dà un senso misterioso e aperto alle
cose. Ecco Mozart, il Flauto magico filmato per la televisione,
risultato di un lungo amore e di citazioni criptiche disseminate lungo
il cinema di Bergman. Se Bach è l'assoluto dello spirito che dà voce
all'indicibile - come in una scena capitale di Sussurri e grida -,
Mozart è il compagno di strada che non si limita a interrogare. La scena
in cui Tamino, solo di fronte al triplice tempio, invoca la notte e
interroga gli spiriti sul destino di Pamina contiene «due domande ai
limiti estremi della vita, ma anche due risposte»: la seconda è che
«l'amore esiste, l'amore è reale nel mondo degli, uomini». Oscuro nei
labirinti dell'esistenza, ma reale. A ventun anni, rifiutato dal
Dramaten, Bergman viene assunto all'Opera di Stoccolma come assistente
alla regia. Ha modo di familiarizzarsi con la grigia routine di un
solido teatro borghese, ma anche di incontrare personalità eccezionali,
come Issay Dobrowen. E lui a svelargli che il mondo dell'interpretazione
musicale è pauroso e semplice nello stesso tempo: fuoco, passione, ma
anche autodisciplina,
discernimento, rispetto. Le follie dei registi, «la libertà totale, la
totale problematicità portate al culmine della disperazione
professionale» appaiono al «barbaro del Nord, che ha assorbito la
fedeltà al testo insieme al latte materno», qualcosa di «spaventoso»,
confessa Bergman di sé. A Monaco, durante l'esilio, gli capita di
assistere alla prova generale del Fidelio diretto da Karl Böhm. «Ricordo
vagamente che la regia era orribile e la scenografia paradossalmente
moderna, non c'entrava niente. Karl Böhm dirigeva i suoi bavaresi
viziati ma virtuosi con piccoli movimenti delle mani - come facessero
coro e solisti a comprendere quei segni era un mistero - [...]
Quest'opera-mostro, verbosa e mal riuscita, s'era improvvisamente
trasformata in un'esperienza limpida come acqua di fonte. Compresi che
stavo sentendo il Fidelio per la prima volta, che - per dirla in parole
povere - non l'avevo mai capito, compreso, inteso. Un'esperienza
decisiva, turbamento interiore, euforia, gratitudine, tutta una serie di
reazioni inattese. La cosa appariva semplice: le note al loro posto,
nessun trucco strano, mai tempi sorprendenti, non uditi prima.
L'interpretazione fu - come dicono i tedeschi con leggera ironia -
werktreu. Eppure il miracolo era un fatto». Tutt'altro l'incontro con lo
stregone Karajan, a Salisburgo durante Il cavaliere della rosa. Benché
la proposta gli appaia ridicola (un film su Turandot), Bergman rimane
«irrimediabilmente affascinato». Il maestro parla e straparla di sé:
«Improvvisamente s'interruppe: "ho visto la Sua messinscena del Sogno.
Lei dirige come un musicista, ha senso del ritmo, della musicalità, del
tono. Lo si vedeva anche nel Flauto magico. Ogni pezzo preso a sé era
affascinante, ma non mi è piaciuto. Lei ha cambiato l'ordine di alcune
scene, verso la fine. Questo con Mozart non lo si può fare, è un tutto
organico"». La lezione è finita, Karajan si avvia alla prova, scortato
dal suo seguito: «un corteo imperiale di assistenti, collaboratori,
cantanti d'opera d'ogni sesso, critici ossequiosi, giornalisti deferenti
e una figlia [ ... ] Quando l'esile figura comparve trascinando la
gamba, tutti si alzarono e rimasero in piedi finché il Maestro fu
portato a braccia al di là dell'orchestra e giunse al suo posto. Il
lavoro ebbe inizio immediatamente. Affogammo in un'ondata di devastante,
rivoltante bellezza». Nella sua vita professionale, Bergman non ha
realizzato molte opere: se si eccettua il film del Flauto magico, solo
una Vedova allegra in anni lontani. Perché mai? «L'imparare a memoria un
pezzo musicale per me è faticoso come scalare una montagna. Per giorni
me ne sto seduto con registratore e partitura, a volte questa incapacità
è paralizzante, a volte ridicola. Forse questa lotta incarognita ha un
aspetto positivo: sono costretto a darmi da fare con quel pezzo
all'infinito. Ho modo di ascoltare attentamente ogni battuta, ogni
pulsazione, ogni attimo. La mia rappresentazione sorge dalla musica. Non
posso seguire un'altra via. La mia invalidità me lo impedisce».
Film
come sogno, come musica: è la conclusione cui Bergman aspira, che gli
sembra di non aver mai raggiunto. Si sbaglia, naturalmente, o finge. Ma
nel suo maniacale perfezionismo egli sa di non poter andare oltre quel
limite. Non si cambia il proprio destino. Anche per questo, se tornasse a
vivere, Bergman vorrebbe essere un musicista.
Sergio Sablich ("il giornale della musica", n.23, dicembre 1987)